
Avete presente quella pasta del giorno prima che, con una spolverata di formaggio e un giro di forno, riesce persino a battere la versione originale? Ecco, la terza stagione di Squid Game è proprio così: una porzione riscaldata, ma non per questo da buttare. Anzi, a tratti sorprende. A tratti scotta. A tratti ha un retrogusto insapore.
Dopo una prima stagione che, da lettrice di Battle Royale, ho trovato familiare ma fresca e ben costruita, la seconda aveva già mostrato qualche segnale di brodo allungato. Piacevole in alcuni momenti, tirata per le lunghe in altri. Non nascondo che speravo si chiudesse con la prima, eppure eccoci arrivati alla terza stagione. Contro ogni previsione… è andata meglio di quanto temessi.
Attenzione: l’articolo contiene spoiler!
Un inizio diretto e senza fronzoli
La storia riparte da dove l’avevamo lasciata: la ribellione fallita, Gi-hun catturato e ributtato nel dormitorio. Vivo, ovviamente. Ha una plot armor così spessa che nemmeno un cecchino narrativo lo scalfisce. I giochi riprendono subito, senza troppi convenevoli, e il ritmo – almeno inizialmente – tiene bene.
Nascondino mortale, salto della corda con finale tragico, e un ultimo gioco che… be’, senza spoiler, diciamo solo che riesce a fregarti proprio quando pensi di aver capito tutto. Ecco il vero punto di forza della serie: quando riesce ad abbassarti la guardia e colpirti alle emozioni. A me è successo nel secondo episodio. Mi ha lasciata svuotata.

Il sapore del brodo resta, ma è annacquato
Se nella seconda stagione avevo faticato a digerire le votazioni e le lungaggini morali – che sembravano pensate per allungare il minutaggio più che per aggiungere profondità – qui il tutto viene dosato meglio. Ci sono ancora momenti dilatati, spiegazioni dei giochi ripetute quasi con il timore che il pubblico di TikTok si distragga, ma almeno non ci si arena troppo su discussioni etiche forzate.
La regia si mantiene curata, visivamente Squid Game 3 resta di forte impatto. Certo, alcune scene d’azione risultano un po’ goffe, alcune musiche sembrano uscite da uno stock audio aziendale, e la CGI fa il suo dovere… quando ci riesce. Ma nonostante qualche inciampo tecnico, la tensione narrativa regge.
Archi narrativi tra alti e bassi
Torna anche la sottotrama della “caccia all’isola”. Se nella seconda stagione mi aveva incuriosita, qui perde mordente: ormai sappiamo tutto, manca la spinta. La scena in stile Among Us sulla nave è più un’occasione mancata che un momento clou.
C’è poi Numero 11, la guardia in tuta rosa. Il suo arco narrativo ha un buon potenziale ma non si incastra del tutto con il resto. È come una sottotrama che arriva sempre un secondo troppo tardi, priva del vero cliffhanger.
E poi… i VIP. Sono tornati, e sono sempre loro: caricaturali, parlata inglese da film porno anni ‘90, ambienti che sembrano set di un club per scambisti. Che sia una scelta voluta o no, la sensazione è sempre quella: stanno recitando nella pubblicità sbagliata.

Una conclusione che divide, ma non delude
Senza svelare troppo, il finale è coraggioso, un po’ divisivo e sorprendentemente coerente con il percorso di Gi-hun. Il suo redemption arc si chiude con una scelta da protagonista di anime vecchio stile, e per quanto abbia sempre sperato in un epilogo diverso, non posso dire che non abbia funzionato.
Ci sono momenti davvero toccanti, come la morte di Hyun-ju nel secondo episodio – una scena che mi ha lasciata a pezzi – o la decisione di Jun-hee di compiere l’estremo gesto per proteggere la figlia. È qui che la serie dimostra ancora di saper parlare il linguaggio del dolore e del sacrificio.
Il tentativo di eliminare i giochi si risolve in un’esplosione – letterale e simbolica – che chiude il cerchio in Corea del Sud ma spalanca la porta all’inevitabile: Squid Game USA è in arrivo. E no, non è un reboot. Il collegamento è già stato piazzato con un cameo che non ti aspetti. A quanto pare, la serie non finirà presto.
Una stagione tra il buono e il potenzialmente indigesto
La terza stagione è, tutto sommato, riuscita. Migliore della seconda, soprattutto perché colma alcuni vuoti e tira le somme di sottotrame lasciate in sospeso. Certo, resta il pensiero fisso: con 10 episodi ben scritti, un’unica stagione sequel avrebbe funzionato meglio. Ma il franchise vende, e si sa: quando la gallina dalle uova d’oro cova, Netflix fa la frittata.
Nel dubbio, io ho ancora fame di storie fatte bene. Ma se questa pasta riscaldata riesce a trasformarsi in una pasta al forno così, allora sì: tutto sommato mi è andata bene.